Due studentesse della classe 3^D SC indirizzo musicale hanno intervistato la prof.ssa Elena Cattaneo, che dirige il laboratorio di biologia delle cellule staminali e farmacologia delle malattie neurodegenerative presso l’Università degli Studi di Milano. Dal 2013 Elena Cattaneo è Senatore a vita della Repubblica italiana, nominata dal Presidente della Repubblica, On. Giorgio Napolitano.
INTERVISTA DEL 24 MAGGIO 2021
A: Lei alla mia età si aspettava di diventare ricercatrice?
EC: In terza media no, decisamente no, ma in realtà neanche dopo. E’ stato un passetto per volta, come spesso succede. Tanti di noi non nascono sapendo quel che vorranno fare e nemmeno io ho avuto una folgorazione verso la ricerca. Mi è sempre piaciuto l’ambito scientifico; ho fatto il liceo scientifico poi all’università ho scelto farmacia, una facoltà che non escludeva la possibilità di fare ricerca anche se forse indirizzava più da un’altra parte. Al terzo anno di università dovevo decidere l’argomento di tesi e avrei potuto scegliere una tesi di tipo compilativo, cioè un’analisi della letteratura scientifica esistente su un certo argomento. E’ accaduto invece che durante una lezione un professore disse: ”Ragazzi, considerate anche la possibilità della tesi sperimentale, quindi in un laboratorio, perchè questa è la vostra unica possibilità di capire cosa significa lavorare in un laboratorio”. E io ho scelto quella possibilità, quindi una tesi sperimentale di un anno in laboratorio semplicemente per non perdermi l’opportunità di sapere cosa fosse. Durante quell’esperienza fui incuriosita da un mondo che avrei rischiato di non conoscere mai se non l’avessi affrontato. Naturalmente sentivo dentro di me anche un certo interesse ma a dir la verità non si era ancora del tutto svelato. Quando poi ho cominciato a capire che lavorare in un laboratorio mi permetteva di vedere l’invisibile, di misurarlo, di renderlo quantificabile e quindi ripetibile in mano altrui, è nata la folgorazione. Compiere un esperimento scientifico significa misurare qualcosa in modo accurato, preciso, per poi consegnarlo al mondo in modo che altri lo possano ripetere.
L’idea di poter guardare dentro una cellula e vedere cosa c’è e riuscire pure a capirlo, è stata la mia “trappola d’oro”, d’”oro” perché è magnifica, “trappola” perché una volta che ci sei dentro non vuoi uscirci più … fortunatamente!
B: A scuola abbiamo affrontato lo studio dei neuroni e di cosa accade al loro funzionamento nelle malattie neurodegenerative legate a mutazioni geniche. Su quale patologia genetica verte la sua ricerca?
EC: io studio una malattia genetica che si chiama malattia di Hungtington, è anch’essa una malattia neurodegenerativa, anche se ce ne sono molte altre che non conosco direttamente. Sai gli scienziati non sanno tutto, non è che conoscono tutto.
Sono tanti i progetti di ricerca sulle malettie neurodegenative, alcune sono molto studiate e conosciamo i meccanismi che le provocano. Una volta che sono noti i meccanismi di base si può cercare di sviluppare terapie, che però al momento non abbiamo. La cosa interessante della ricerca che tutti dobbiamo tenere bene a mente è che anche se non abbiamo oggi una terapia o una soluzione, la ricerca garantisce qualcosa di fenomenale: l’assiduità di continuare a ricercarla, l’assiduità di continuare a cercare la strada per trovare una cura. Quindi credo che l’aspetto cruciale sia l’assiduità unita alla competenza e al lavoro di tanti giovani come voi, che poi hanno intrapreso la strada della ricerca.
Ndr: La professoressa decide di farci fare un tour virtuale del suo laboratorio con la presentazione dei ricercatori che ci raccontano qualcosa di loro e delle loro esperienze!
Per esempio ci presenta una bioinformatica, che racconta …
“Io sono una bioinformatica e mi sto specializzando per dare un senso ai numeri. Quando studiamo le cellule o i topolini e le malattie, vengono fuori tantissimi numeri! Ogni cellula ha 20.000-30.000 geni, ogni gene è trascritto in RNA – pensate quanto lavoro fanno queste cellule – e noi possiamo misurare questi RNA per cercare di capire nell’insieme o singolarmente le singole cellule come si comportano in un certo tessuto del corpo umano o una certa malattia. Però nel fare queste misure ci vengono fuori miliardi di numeri, e qualcuno deve pur decifrarli! Nel lavoro di ricerca c’è una prima parte che noi chiamiamo “wet work” ovvero “lavoro al bancone del laboratorio” ma poi c’è una seconda parte importante che riguarda l’analisi dei dati ottenuti e di cui ci occupiamo noi bioinformatici.
Ndr: Siamo state virtualmente accompagnate dentro la “stanza cellule” abbiamo visto anche piastre in incubazione piene di neuroni e di cellule staminali. Abbiamo anche visto microscopi che producono ingrandimenti pari a mille volte, altri arrivano a 100.000 ingrandimenti, o addirittura il microscopio elettronico che arriva a 500.000 volte. Quindi vuol dire che possiamo guardare dentro alle cellule in modo pazzesco, cioè possiamo capire ad esempio quante sinapsi riescono a generare i singoli neuroni (le sinapsi sono i punti di collegamento tra i neuroni).
B: Come ha scelto di studiare la Corea di Huntington?
EC: È una bella domanda! Dopo la laurea mi sono sposata e tre mesi dopo sono partita per Boston e ho lasciato a casa mio marito per tre anni e mezzo per andare a lavorare al MIT, Massachusset Institute of Technology. Un giorno il mio capo d’allora mi disse: “domani verrà in visita una scienziata d’eccezione, Nancy Wexler, e devi andare assolutamente a sentire la sua storia”.
L’incontro con Nancy mi ha folgorata. Nel suo albero genealogico c’era familiarità per la malattia di Huntington, la mamma per esempio aveva la malattia. Negli anni ‘80 organizzò la prima crociata di studiosi per cercare il gene responsabile della corea di Huntington. Si recò a lavorare in Venezuela perché aveva scoperto che lì, vicino al Lago Maracaibo, ci sono villaggi con migliaia di persone con questa malattia. A quei tempi, per trovare un gene raro, avevamo bisogno di una grossa genealogia, e lì appunto c’era. Per me, Nancy ha rappresentato la persona carismatica capace di lanciare una sfida impossibile, ovvero quella di trovare un gene in un momento storico, gli anni ’80, in cui nessuno studiava ancora il genoma. Infatti quello dell’Huntington è stato uno dei primi geni scoperti. Lei era così inclusiva che a me è bastata una parola per essere coinvolta nel suo team di ricerca. Ecco, mi sono messa a studiare l’Huntington perchè ho conosciuto lei, Nancy Wexler.
B: Ha dovuto sacrificare qualche aspetto della sua vita per diventare ricercatrice?
EC: Nemmeno uno, assolutamente no. Ho due figli e una famiglia che credo felice. Sta a noi mettere insieme, trovare le complicità giuste ed alimentarle affinché nessuna donna senta di dover sacrificare aspetti della sua vita. C’è però un segreto… in realtà il segreto sta nel scegliersi un marito complice!
A: Ci potrebbe dare qualche consiglio per affrontare la strada della ricerca?
EC: Non darsi un obiettivo enorme fin da subito. Io ho sempre l’idea di “un passettino per volta”, ciascuno così trova la propria strada. Quando si è giovani si può anche sbagliare strada e riprenderne una nuova. Il messaggio che sento più importante è di usare il cuore per cogliere le opportunità e poi buttarsi a capofitto per trasformarle nelle opportunità migliori di crescita. Se poi tali obiettivi non vi soddisferanno più completamente potrete gettare il cuore un po’ più in là, un pò più a sinistra o un pò più a destra.
La cosa che reputo fondamentale è farsi guidare dalla passione, non dai calcoli! E’ la passione che vince tutto e che permette di svolgere un lavoro che non esclude la famiglia e, viceversa, vivere la famiglia senza escludere il lavoro. Ho avuto la fortuna di avere la complicità di una suocera che credeva in me come moglie, madre e ricercatrice. Intorno a noi ci sono sempre persone positive, sta anche a noi ricambiare e trasmettere loro la stessa positività. Sono sicura che riuscirete a perseguire una strada che vi soddisferà, se vi farete guidare dalla passione.
A: Il mio elaborato per l’esame ha come tema centrale Rosalind Franklin; sarei curiosa di sapere com’è cambiato secondo lei il ruolo della donna nella scienza.
EC: c’è ancora tanto da fare. Qualcosa in realtà è cambiato rispetto al tempo di Rosalind e al tempo di Rita Levi Montalcini. A noi, a te, a voi, è offerta la possibilità di studiare. Voi potete laurearvi. Un tempo non sarebbe stato possibile, e ancora oggi in alcune parti del mondo non è possibile. Oggi ci si può laureare, si può diventare ricercatrici; ciò significa che questa strada è aperta, però siamo ancora molto lontane dall’avere una parità di genere: per esempio la percentuale di donne docenti universitarie è ancora troppo bassa. E’ in atto una rincorsa di una parte della società, le donne appunto, che è rimasta indietro, svantaggiata a causa dei pregiudizi; quindi donne alla rincorsa della conquista piena del loro desiderio professionale. Ma non ci siamo ancora. Uno studio pubblicato sulla più autorevole rivista scientifica internazionale, il New England Journal of Medicine, ha ripetuto un’analisi fatta vent’anni prima per indagare la possibilità di carriera delle donne nell’ambito della medicina, della matematica, del settore biomedico. Negli Stati Uniti vent’anni fa c’era un chiaro disequilibrio: il numero di professori associati e ordinari donna era bassissimo. La stessa statistica, ripetuta a dicembre 2020, ha dimostrato che nulla è cambiato, e questo è drammatico. In un ambito come la medicina questa disparità di genere non è giustificabile, perchè non c’è nulla nella scienza o nella medicina o nella matematica o nella bioinformatica che possa essere precluso ad un donna o ad un uomo per il solo fatto di essere donna o uomo. Quindi di fatto ci sono ancora dei meccanismi che impediscono la piena realizzazione professionale della donna e questi problemi non sono solo relativi all’ambito accademico ma sono presenti a livello di struttura della società. Pensiamo anche alle difficoltà legate alla carenza di asili nido, oppure a come spesso sia proprio la donna a doversi mettere a disposizione nel momento in cui c’è necessità di assistere un parente o un genitore… quindi sì, direi che siamo in rincorsa.
B: Come riesce a conciliare l’attività politica con la ricerca e che effetto ha la ricerca sulle scelte politiche?
EC: Per rispondere a questa domanda potrei parlare molto a lungo, perchè accendi in me il bottone della mia maggiore passione. Ho sempre pensato che la scienza abbia senso soltanto nel momento in cui esce dai laboratori per entrare nella nostra società e diventare vita con i cittadini, per poi entrare nelle maglie legislative. Non ha senso studiare in un laboratorio per se stessi. Non si studia per se stessi, bensì per coloro che vivono là, fuori dal laboratorio. La politica è lo strumento più alto e più importante che abbiamo per fare le scelte giuste. E’ fondamentale però compiere scelte politiche su base informata, guardando alle prove della scienza. E lì che sento di avere la grande possibilità di contestare e di sentire dentro la nostra più importante istituzione italiana. Me la prendo tutta questa possibilità, per cercare di dare il mio contributo al Paese, alla società e soprattutto per creare un futuro per voi giovani. Ieri sono intervenuta ad una trasmissione televisiva condotta da Fabio Fazio, e ho detto che voglio immaginare tutti i percorsi possibili per accendere le idee dei giovani, di tutti coloro che finiscono un percorso universitario e hanno delle idee da mettere a disposizione, per dare loro la possibilità di misurarsi con la propria idea. Accendere le idee dei giovani significa accendere quella passione, dare la possibilità di riconoscersi nel proprio Paese e di lavorare sulla propria idea per il proprio Paese. Ho la percezione che nel fare questo si possa accendere un cittadino innamorato del proprio Paese, ed è questo che vorrei e per questo farò la mia parte.
P: Professoressa, è stata gentilissima e fonte di ispirazione, ci ha contagiato con la sua grande passione e ci ha regalato tanti spunti preziosi.
EC: Mi ha fatto tanto piacere conoscere Beatrice ed Anna. A voi, ai vostri compagni e ai vostri professori un grande grazie per tenere in piedi l’asse portante di questo Paese, sforzo che non può essere lasciato solo alla straordinaria volontà dei professori. Serve un faro acceso sulla Scuola costantemente, perchè una nazione si costruisce sui banchi di scuola.